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domenica 2 marzo 2014

"Non servire a mammona" uguale "vivi un'economia della felicità"

"Non potete servire a Dio e a mammona". Ecco la parola che ci viene rivolta oggi dalla liturgia domenicale.

Il Vangelo secondo Matteo e in particolare il Discorso della Montagna

Leggiamo oggi dal capitolo 6 del Vangelo secondo Matteo. Ogni anno, su un ciclo di tre anni, viene scelto un evangelista in modo particolare, dal quale attingiamo la Liturgia della Parola ogni domenica, almeno nel "Tempo Ordinario". E' da qualche settimana che ascoltiamo vari insegnamenti di Gesù in quella raccolta che l'evangelista Matteo ha posto nel cosiddetto "Discorso della Montagna". Si tratta di una bellissima raccolta di insegnamenti che ci aiutano a capire che cosa significa effettivamente vivere da cristiani. E visto che Matteo proviene dalla cultura ebraica (era un ebreo, sebbene considerato un traditore dai suoi compaesani perché raccoglieva le tasse per i romani non lontano dal villaggio di Gesù, Cafarnao, che si trova sulla riva del Lago della Galilea e nelle vicinanze dell'antica Via Maris, quella via commerciale che collegava la lontana Babilonia al nord-est con l'Egitto al sud-ovest); visto che Matteo proveniva dalla cultura ebraica, conosceva bene le usanze e le scritture ebraiche. Pertanto nel suo vangelo troviamo continui richiami e confronti con l'Antico Testamento. Anche nel discorso della montagna, ascoltiamo Gesù che proclama "Non crediate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti; non sono venuto ad abolire, ma a dare pieno compimento." Con Legge si intende la Torah, ossia i primi cinque libri dell'Antico Testamento, la parte più importante e significativa delle scritture ebraiche; i Profeti sono l'altra sezione significativa delle scritture ebraiche. Se noi oggi, come cristiani, abbiamo nella nostra Bibbia anche l'Antico Testamento con la Legge e i Profeti, e non soltanto il Nuovo Testamento, è proprio perché Gesù "non è venuto per abolire la Legge o i Profeti".

Dio, padrone provvido

Dopo aver fatto vari insegnamenti sulla preghiera e sull'elemosina, e sul perdono cristiano, oggi Gesù ci ricorda che conviene scegliere Dio come nostro padrone, perché è un Dio che si preoccupa di noi, è un Dio provvido. Contrappone a Dio un altro padrone, "Mammona". Mammona non è il denaro in quanto tale, è piuttosto quella disposizione del cuore che viene chiamata avidità, e che ci chiude il cuore nei confronti di Dio e del vicino (che noi da cristiani chiamiamo pure fratello). Gesù non condanna l'economia come sistema, la quale è pure necessaria per la vita in società; l'economia prevede un circolo di denaro nella ricerca di migliorare la vita di tutti quanti, nella ricerca di offrire servizi utili gli uni agli altri. Gesù ci fa capire che Dio non ha il cuore chiuso nei nostri confronti, ma è un Dio provvido il quale tiene in alta considerazione il valore della nostra vita. "Guardate gli uccelli del cielo: non séminano e non mietono, né raccolgono nei granai; eppure il Padre vostro celeste li nutre. Non valete forse più di loro?"
Anche la prima lettura, tratta dai Profeti, è su questa linea, ossia della "provvidenza tenera" di Dio. Qualche volta abbiamo un'immagine del Dio dell'Antico Testamento come un Dio vendicativo, un Dio che è pronto a punire, un Dio "Zeus" pronto a lanciare i suoi fulmini, mentre il Dio del Nuovo Testamento è il Dio della misericordia e del perdono. Ebbene, la lettura di oggi ci fa ricredere su questo luogo comune; sono diversi i passi dell'Antico Testamento nei quali iniziamo a vedere il volto di un Dio "Padre", tenero e misericordioso, lento all'ira e pronto al perdono. Anzi, è sorprendente il passo di Isaia che oggi ascoltiamo, Dio si paragona addirittura ad una madre! "Si dimentica forse una donna del suo bambino, così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere? Anche se costoro si dimenticassero, io invece non ti dimenticherò mai." Quando il Papa Giovanni Paolo II ha paragonato Dio a una madre in qualche occasione (pensiamo all'Angelus del 10 settembre 1978, mentre era in corso il summit di Camp David; il Papa ricordava il premiere Begin che citava questo stesso passo di Isaia, e il Papa poi commenta: "E' papà; più ancora è madre."), sembrava che avanzasse una nuova teologia. Invece ascoltando bene le pagine dell'Antico Testamento, già vediamo svelato l'amore paterno e materno di Dio.

Siamo noi le mani della Provvidenza di Dio

Come si esprime concretamente la provvidenza di Dio? Noi leggiamo alcuni passi dell'Antico Testamento che cantano le meraviglie operate da Dio nei confronti del suo popolo, quando ha aperto le acque al passaggio degli Israeliti e poi le ha richiuse al passaggio degli egiziani, quando ha provveduto la manna e le quaglie nel deserto, quando aiutava a vincere le battaglie... Però possiamo dire che questi racconti fanno parte dell'epopea del Popolo di Israele, che vuole esprimere la sua fede nella provvidenza di Dio. Non dobbiamo però pensare che Dio ci metterà sempre tutto davanti in maniera così eclatante, anche se qualche volta nella vita anche noi possiamo quasi toccare per mano la provvidenza di Dio.
Dobbiamo invece ricordarci che siamo tutti noi le mani della provvidenza di Dio. Dio esprime la sua provvidenza nel mondo anche attraverso di ognuno di noi. San Giacomo ci ricorda (cap. 2 vers. 6): "Se uno è senza vestiti e cibo e tu gli dici, va in pace, non preoccuparti, riscaldati e saziati, ma non gli dai il necessario per il corpo, a che cosa ti serve la tua fede?" Non ci può essere fede senza carità. Ma ci sono molti modi in cui realizzare la carità, e non soltanto con l'elemosina. Penso per esempio all'esperienza molto interessante della "economia di comunione" che cercano di realizzare alcune aziende nella località Burchio (Incisa - Valdarno, FI). Si tratta di uno stile di economia aziendale volto a progetti di sviluppo per abbattere le povertà; uno stile di economia aziendale che cerca di curare la qualità dei rapporti umani tra dirigenza e dipendenti, tra venditore e cliente; uno stile di economia aziendale che ha una attenzione per il territorio e per il benessere delle persone che abitano nello stesso territorio; possiamo chiamarla "economia delle relazioni" o "economia della reciprocità" o in fondo "economia della felicità". Credo che sia questo l'invito di Gesù nel Vangelo che oggi ascoltiamo, non un disprezzo del denaro, ma un uso e una gestione del denaro che sia volta effettivamente al bene delle persone, e ad una società autenticamente a misura dell'uomo.

Quella fiaccolata di febbraio di supplica penitente e di come non bisogna mai vantarsi troppo

Amo ricordare ogni anno, mentre inizio in fondo alla chiesa la fiaccolata nel giorno della Presentazione del Signore al Tempio il giorno 2 febbraio, uno dei significati di questo gesto, caratteristico della processione almeno qui in Occidente.
In verità questa festa liturgica ha le sue origini lontane nella Liturgia Orientale, sotto il nome di "Ipapante" (che in greco significa "Incontro"), per ricordare l'incontro del vecchio Simeone con Gesù bambino nel Tempio quando Maria e Giuseppe, per adempiere alla legge ebraica, presentano il loro primogenito al Signore con l'offerta prevista dalle leggi prescritte nell'Antico Testamento (Es 13,2.11-16; Lev 12,6-8).
In occidente, nel periodo medievale e in particolare a Roma, questa processione acquista un ulteriore significato. Visto che avveniva di febbraio, e visto che febbraio si chiama febbraio perché è il mese delle febbri, allora questa processione con le fiaccole aveva anche un carattere penitenziale, con la supplica al Signore perché sia clemente e misericordioso e perché non ci faccia soffrire troppo le febbri.

Ebbene, è da un anno praticamente che io non prendevo febbre, perciò mentre esponevo questo pensiero all'inizio della fiaccolata, sorridevo compiacente, contento di non aver sofferto questo male che tocca praticamente a tutti prima o poi ogni anno. Guardavo tutti intorno a me che prima o poi si beccavano, in vari periodi dell'anno (in estate addirittura!) un bel raffreddore e perché no, anche un po' di febbre. Attribuivo (e forse un fondo di verità c'è pure) la mia forza corporale nel resistere alla sciagurata febbre al fatto che, da un anno, consumo quasi ogni giorno 4000 IU di vitamina D. Ho imparato questo consiglio da una mia zia durante un mio viaggio a casa negli Stati Uniti che si è trasformato in un pellegrinaggio penitenziale dal momento che, per l'ennesima volta, mi sono beccato un bel raffreddore dal viaggio in aereo. Chissà, sarà dovuto al ricircolo di aria con tanti passeggeri a bordo... In ogni modo, questa zia mi raccontava che è da tanto tempo che non si becca nessuna influenza o raffreddore grazie alla vitamina D che ha iniziato a consumare nel limite giornaliero (e non conviene mai superare questo limite, troppe vitamine non fanno bene) di 4000 IU.
Mi aveva un po' convinta la sua teoria, perché informandomi su questa Vitamina D (si sente tanto parlare di Vitamina C, poco della Vitamina D), ho scoperto che la vitamina D viene prodotta naturalmente dal corpo quando è esposto al sole, a seconda di quanta superficie di pelle è esposta ogni giorno... Beh, tenendo conto che abbiamo, nella nostra civiltà attuale (almeno, per la maggior parte, poi eccezioni ci sono) l'usanza di andare in giro ben vestiti e coperti, e che passiamo tanto tempo della giornata all'interno degli edifici e delle abitazioni, in effetti non siamo così esposti al sole quanto chi vive in natura. Pertanto posso capire che il corpo tenda ad avere deficienza di vitamina D.
Ebbene, fino all'altro ieri la teoria ha retto. Ma nessuna teoria è infallibile. Proprio l'ultimo giorno del mese delle febbri, anch'io mi sono beccato, dopo un anno, una bella febbre. Allora non ho fatto invano la fiaccolata del 2 febbraio, anch'io mi ritrovo che non mi posso vantare delle mie forze e nemmeno troppo delle mie vitamine che pur potendo aiutare, non sono infallibili. Sii clemente con noi Signore, e non lasciare che la sciagurata febbre ci colpisca troppo duramente!

domenica 13 ottobre 2013

Il nome sacro di Maria nella toponomastica italiana

Un parrocchiano della Parrocchia di San Lino, ex-dipendente ora pensionato della sicurezza vaticana, mi ha dato negli ultimi anni copia di un suo articolo per l'Osservatore Romano sulla "toponomastica mariana" in Italia. Credo che sia un fatto culturale degno di nota, perciò riporto elettronicamente anche questo articoletto:

E' noto come una chiesa, un culto, una reliquia o anche una sosta missionaria fin dall'avvicendarsi delle invasioni barbariche, possano essere state le origini del nome sacro di un centro abitato o di altro agglomerato urbano. Questi nomi servivano a tenere uniti tutti gli abitanti sia quelli raggruppati nelle vallate quando salivano ai monti per fortificarsi, sia quelli riuniti sui monti quando scendevano a valle per ampliare i loro lavori agricoli.
Si evidenzia così come la toponomastica sacra abbia reso, e renda nel tempo, un largo contributo al nome di coloro che vissero intorno a Cristo. La frequente distribuzione di questi nomi sacri trova soprattutto ampio riferimento al culto mariano con la diffusione del nome di «Maria» la madre di Gesù.

Una devozione straordinariamente diffusa
Pur essendo a tutti noto che la Vergine di Nazareth non sia mai venuta in Italia, un excursus storico geografico mette in risalto come in questa nazione sia sempre stata straordinariamente diffusa la devozione mariana evidenziata anche dalle risultanze numeriche statistiche della diffusione di questo sacro toponimo nel nostro territorio.
A confermarlo sono le ricerche del mariologo Stefano De Fiores e quelle sui santuari del nostro Paese di Domenico Marcucci che ci fanno ben ritenere come in Italia la Madonna sia di casa.

Panoramica storica e geografica
Infatti queste statistiche appresso sintetizzate ci informano che:
— in Piemonte i toponimi mariani sono oltre 250 dei quali tre sedi di comuni: Madonna del Sasso, Mosso Santa Maria, Santa Maria Maggiore, mentre l'unico comune della Valle d' Aosta con attributo mariano è Rhêmes Notre-Dame;
— in Lombardia questi toponimi sono oltre 200 di cui i maggiori: Santa Marta della Versa, Santa Maria di Rovi-gnate, Santa Maria Rezzonico e Torre Santa Maria. Soltanto 11 invece, sono i toponimi riferiti a Maria in Trentino-Alto Adige, 70 nella Venezia Euganea e 20 in Friuli- Venezia Giulia;
— la Liguria ne registra oltre una cinquantina relativi a minuscoli centri, mentre in Emilia-Romagna si arriva a 120 toponimi mariani con uno tra i più noti: la Madonna di S. Luca a Bologna. In Toscana i siti con nomi mariani arrivano a 125 di cui uno solo — nel pisano — è comune: Santa Maria a Monte. Similmente nelle Marche solo Santa Maria Nova è comune tra i 190 centri minori in questa regione riferiti a Maria;
— per l'Umbria i nomi di questi luoghi mariani sono 100 con un unico comune: Santa Maria Tiberina. Al primo posto tra le regioni italiane senza dubbio il Lazio dove si contano 260 toponimi dedicati alla Vergine. A Roma il forte attaccamento alla Madonna è stato sempre dimostrato anche dalla iconografia delle numerose aediculas che fin dal Medio Evo erano sistemate agli angoli degli edifici;
— in Abruzzo e in Molise Maria è nominata in 170 centri di cui 4 comuni: Rocca Santa Maria, Sante Marie, Santa Maria in Baro, Villa Santa Maria. In Puglia invece, sono 110 i siti mariani ed in Basilicata i toponimi dedicati alla Vergine arrivano a 66, mentre in Calabria se ne contano 70 con quello della Madonna della Catena presso Cosenza. Compreso nella provincia di Cagliari in Sardegna, vi è il comune Domus de Maria a completare gli altri 35 di questa regione. Nell'altra isola la Sicilia, il nome di Maria è ricordato in 120 luoghi tra i quali Santa Maria di Licodia sede comunale.

Testimonianze di fede popolare
Da questo ricercato e dettagliato calcolo sui toponimi dedicati in Italia alla Vergine Maria, si deduce come in proporzione alla superficie e alla popolazione di ogni regione questo toponimo sacro sia: 
forte nel Lazio, Umbria, Marche, Abruzzo e Puglia ma maggiormente in Basilicata;
medio alto nelle due isole maggiori, in Campania ed in Calabria;
modesto nel nord-orientale anche se piu consistente in Piemonte.
Queste statistiche evidenziano pertanto come in Italia risalti una fortissima tendenza al prevalere della fede popolare e spicciola non imposta, come un concreto e spiccato attaccamento devozionale etnico e religioso tipico delle classi socialmente meno elevate. Di questo tutti, volenti o nolenti, debbono compiacersi non tanto per la classifica numerica bensì per il significato da questa emerso che fa dedurre come «l'Italia si chiama Maria».
Padre Mariano, il popolare cappuccino che da religioso scelse il nome suo dedicandolo a Maria, nel 1954 asseriva: «Un uomo il quale sappia chi è Maria e voglia rendersi conto dello stupore che in lui suscita questa donna unica nella storia, passa di sorpresa in sorpresa... Ella è certissimamente un personaggio storico... È la donna più raffigurata nell'arte, la bibliografia mariana è sterminata, il nome di Maria è il più frequente fra le donne cristiane, il popolo cristiano la invoca, la prega, la nomina continuamente».
Tutto questo certamente aiuta a percepire quanto il «senso» di Maria sia valso, valga e varrà per tutti quelli che sulla terra sono comunque ricorsi a Lei Consolatrice e Madre: questo è il nome che ne costituisce la sintesi più significativa.
BRUNO LUTI

sabato 12 ottobre 2013

Nel prete la gente ha la speranza di "vedere" Cristo

Propongo alla vostra lettura una paginetta con un pensiero significativo di Papa Giovanni Paolo II sulla spiritualità sacerdotale. E' tratto dalla lettera indirizzata dal Papa ai sacerdoti per il Giovedì Santo, quando era ancora ricoverato al Policlinico Gemelli.

«Dal Policlinico Gemelli in Roma, 13 marzo [2005], 5a domenica di Quaresima..., 27° di Pontificato». Con questa "inedita" data si conclude la tradizionale lettera che il Papa invia ai sacerdoti per il Giovedi Santo. «Il mio pensiero viene a voi, sacerdoti, mentre trascorro un periodo di cura e di riabilitazione in ospedale, ammalato tra gli ammalati, unendo nell'Eucaristia la mia sofferenza a quella di Cristo». Ne proponiamo alcuni passaggi.

Un'esistenza profondamente "grata" 
«In ogni messa — dice il Papa ai sacerdoti— ricordiamo e riviviamo il primo sentimento espresso da Gesù nell'atto di spezzare il pane: quello del rendimento di grazie». «in particolare, per il dono della fede, della quale è diventato annunciatore, e per quello del sacerdozio, che lo consacra interamente al servizio del Regno di Dio».

Un'esistenza "donata"
Il sacerdote, prosegue il Papa, a imitazione di Cristo sulla croce, «deve imparare a dire, con verità e generosità: "Prendete e mangiate". La sua vita, infatti, ha senso se egli sa farsi dono». «Obbedendo per amore, rinunciando magari a legittimi spazi di libertà..., il sacerdote attua nella propria carne quel “prendete e mangiate” con cui Cristo, nell'Ultima Cena, affidò se stesso alla Chiesa».

Un'esistenza "salvata" per salvare
Come «essere efficacemente annunciatori privilegiati» della salvezza, «senza sentirci noi stessi salvati?». Noi per primi siamo impegnati a «progredire nel cammino di perfezione», se vogliamo essere «annunciatori credibili della salvezza».

Un'esistenza "memore"
«L'Eucaristia - afferma il Papa - non ricorda semplicemente un fatto: ricorda Lui!». In un tempo in cui i rapidi cambiamenti culturali e sociali allentano il senso della tradizione, «il sacerdote è chiamato ad essere... l'uomo del ricordo fedele di Cristo e di tutto il suo mistero».

Un'esistenza "consacrata" 
«Dal nostro rapporto con l'Eucaristia - spiega il Papa - trae il suo senso più esigente anche la condizione "sacra" della nostra vita. Essa deve trasparire da tutto il nostro modo di essere, ma innanzitutto dal modo stesso di celebrare... Stare davanti a Gesù Eucaristia, approfittare, in certo senso, delle nostre "solitudini" per riempirle di questa Presenza, significa dare alla nostra consacrazione tutto il calore dell'intimità con Cristo, da cui prende gioia e senso la nostra vita».

Un'esistenza protesa verso Cristo
«Il sacerdote è uno che, nonostante il passare degli anni, continua ad irradiare giovinezza. Soprattutto nel contesto della nuova evangelizzazione, ai sacerdoti la gente ha diritto di rivolgersi con la speranza di "vedere" in loro Cristo. Ne sentono il bisogno in particolare i giovani», che Cristo continua a chiamare a sé per farseli amici e pér proporre ad alcuni la donazione totale alla causa del Regno.

Un'esistenza alla scuola di Maria 
«Chi più di Maria può farci gustare la grandezza del mistero eucaristico?». «La imploro, dunque, per tutti voi, le affido. specialmente i più anziani, gli ammalati, quanti si trovano in difficoltà».

venerdì 11 ottobre 2013

L'Immacolata Bellezza Creata Perfetta

Vi regalo qualche considerazione spirituale sull'Immacolata, con elementi di filosofia, che ho elaborato nel lontano anno giubilare, mentre stavo ancora in seminario. Mi è ricapitato ora tra le mani e approfitto per metterlo nel mio "archivio elettronico".


Roma, martedì 29/08/2000

Chi sei tu, O Immacolata? Sei la Sposa dello Spirito Santo, e quindi sei tutta bella. Sei la Rosa Mistica. Se guardiamo alla bellezza di un fiore, è una bellezza molto limitata, per quanto possa suscitare in noi ammirazione e contemplazione, per il fatto che è una bellezza creata. In quanta creata, non è né può essere una bellezza assoluta. E’ soltanto una bellezza relativa, perché il creato in quanto tale è relativo, in quanto è intrinseca al suo essere la sua relazione con il Creatore. La bellezza del fiore è soltanto un vago assaggio della bellezza assoluta che è Dio stesso, e dal quale deriva ogni bellezza creata. Egli è l’autore della bellezza, Egli è la bellezza increata dalla quale promana ogni bellezza come il profumo dal fiore. Il profumo non è il fiore, e il fiore è molto di più rispetto al profumo che produce, eppure il profumo ci permette di accorgerci della sua presenza, ci conduce al fiore, ci introduce alla sua conoscenza e ci fa godere del fiore. La bellezza creata è relativa al Creatore dal quale proviene, e questa relazione viene detta “creazione”. Il creato ci rimanda al Creatore; la bellezza creata ci rimanda alla bellezza increata dalla quale essa proviene. La bellezza increata è infinita, perfettissima, assoluta, creatrice. Vi sono dei misteri sublimi racchiusi in queste relazioni. In ogni relazione, vi sono due correlati. Ciascun correlato è relativo all’altro, è in relazione con l’altro, e insieme sono “co-relati”, relativi l’uno all’altro. La correlatività si fonda sulla relazione che sussiste tra i due correlati. Pertanto la “relazione” implica limitazione. Un correlato non è assoluto, perché implica l’altro correlato. Ciò che è assoluto, invece, non implica altro, proprio perché è “ab-solutus” ossia “sciolto da” ogni limite, non ha quindi un correlato ma piuttosto basta a se stesso, è già completo di suo. Ciò che è “assoluto” non ha limite. “Limite” (lat. “limin”) impica una soglia; la “soglia” è il ponte tra due correlati. Come la soglia all’ingresso di una casa, la quale mette in relazione l’interno della casa con l’esterno. Una volta che c’è la soglia, l’interno della casa implica che ci sia un esterno. Se invece non c’è la soglia, allora non c’è il “limite”, e non c’è relazione tra correlati. Una entità senza soglia (senza limite) è un’entità assoluta, sciolta da relazione con un’altra entità. Ogni relazione pertanto implica che ci siano dei limiti, che ci siano soglie, che ci sia quello spazio che mette un correlato in relazione con l’altro correlato.
Pensiamo al significato della “assoluzione” sacramentale. Nell’assoluzione sacramentale, il penitente viene perdonato dal suo peccato, viene sciolto dal suo limite. Il peccato è un limite per l’uomo, nel senso negativo del termine; il peccato limita la libertà, e la fa regredire. Invece chi è senza peccato o macchia di peccato, chi è “immacolato”, non conosce il limite del peccato, e la sua libertà è maggiore. “Tutto posso in Colui che mi dà forza, attraverso l’Immacolata” diceva San Massimiliano Kolbe, citando l’Apostolo. “TUTTO posso”. Non qualcosa, ma tutto. In latino si direbbe “omnia possum”, e possiamo derivare un aggettivo corrispondente “omnipotens sum”. Sono “onnipotente” in Colui che mi dà la forza. Rimanere in Lui, l’Onnipotente Signore, mi rende onnipotente. Il processo di unificazione in Lui toglie ogni soglia che ci divide da Lui, toglie ogni limite al nostro essere in Lui. La soglia da una parte mette in relazione; dall’altra parte divide. Fa sì che un correlato non sia l’altro correlato, fa sì che i correlati siano distinti tra loro. Ciascun correlato, sebbene relativo all’altro è anche estraneo all’altro. Invece chi rimane in Lui, non è né straniero (estraneo) né ospite, ma piuttosto amico e familiare di Dio.
Qual’è però il grande mistero della relazione tra il creato e il Creatore, tra la bellezza creata e la Bellezza increata? Ravviso un grande mistero nel fatto che la Bellezza increata è creatrice. Nel creare, si crea relazione. Se da una parte il creato è relativo al suo Creatore, non è anche vero che Il Creatore non è più del tutto assoluto, ma è anche Lui relativo al suo creato? Ecco il mistero della creazione. La creazione non ha spiegazione logica, l’Assoluto non aveva motivi per rendersi Relativo. Creando, l’Assoluto si rende Relativo al creato, quasi rinunciando al suo essere Assoluto.
E la creatura non può che tremare al pensiero di avere un correlato che è Assoluto. Sebbene il pensiero che il suo correlato sia il Creatore Assoluto lo porti a cadere in ginocchio con le lacrime agli occhi, con una riconoscenza infinita (o meglio mai sufficiente, perché tale relazione con il Creatore esalta la creatura in un modo inconcepibile all’intelletto umano, in quanto la bellezza della creatura è un profumo divino), dall’altra parte lo stupore cresce vertiginosamente al pensiero che il correlato della Bellezza Assoluta sia lei stessa, creatura. Questo pensiero infonde timore, quasi timore di essere e di porre un limite alla Bellezza Assoluta. Eppure non è stata la creatura a scegliere ciò, è stato il Creatore a volerlo. Entrando in relazione con la sua creatura, sembrerebbe rinunciare al suo essere Assoluto, eppure rimane tale… Quale meraviglia! Sono misteri incomprensibili all’intelletto umano. Il Creatore Assoluto ci fece comprendere attraverso il suo Verbo che Egli è Amore, e l’Amore non conosce la logica degli uomini. “I miei pensieri non sono i vostri pensieri”. Ed ecco che di fronte alla Rivelazione dell’Amore ogni timore si scioglie in infinita riconoscenza e corrispondenza d’amore, per quanto ciò sia possible, perché ogni nostro amore è comunque creato e quindi limitato. Lui solo è l’Amore Assoluto, supremo, increato. Il perché della creazione non trova risposta se non nell’Amore increato. Dio è Creatore perché Dio è Amore. Il fiore può avere bellezza perché la Bellezza Assoluta è Amore, e quasi rinuncia ad essere la Bellezza Assoluta pur di condividere la sua bellezza con una creatura. Si china sulla creatura per darle della sua Bellezza, eppure non perde nulla della propria Bellezza nel donarla.
L’Immacolata è tutta bella, è il vertice della bellezza creata. Ma la linfa che dà vita e bellezza a questa mistica Rosa è lo Spirito Santo. Egli la vivifica, le comunica la sua vita divina. L’umano intelletto si china di fronte a tale mistero, nel quale la bellezza della creatura si confonde con la Bellezza del Creatore quasi da non potersi più distinguere. La bellezza della Rosa Mistica è una bellezza creata che è tutta piena della bellezza increata. Tutta bella sei, o Maria, e macchia di peccato originale non è in te!
Se lei è il vertice dell’amore creato e della bellezza creata, possiamo dire che lei è la somma di tutto l’amore creato? Possiamo dire che è una bellezza “perfettissima”? Ciò che è imperfetto è “in potenza”, mentre ciò che è perfetto è “in atto”. “Perfetto” significa, nel pensiero dei filosofi, ciò che è compiuto e realizzato, mentre ciò che è in potenza si deve ancora realizzare. Ciò che è perfetto non conosce nemmeno quel “atto della potenza in quanto tale”, ossia in quanto ancora in potenza, che viene chiamato il “divenire”. Ciò che è perfetto, è “in atto” e non è più “in potenza”. Ciò che non è più “in potenza”, ciò che è perfetto, si potrebbe quasi dire “impotente”, ossia non affatto “in potenza”. Dio è l’Essere perfetto, eppure è Potente, anzi è l’Onnipotente, la sua Potenza non conosce limite. Eppure sembrerebbe che la “potenza” limita la “perfezione”. Dio sembra essere Perfetto, e allo stesso tempo quasi “in divenire” perché Potente. In Dio gli opposti si conciliano. Solo l’Amore può conciliare gli opposti.
John R. D'Orazio

giovedì 10 ottobre 2013

Arrivederci in cielo

Un altro foglietto che conservo da un po' di tempo, e che ho piacere di riportare elettronicamente per eliminare la carta, è un utile approccio pastorale alle persone che vivono il dolore della morte di una persona cara. Si tratta di un "decalogo" di consigli per vivere al meglio questo momento delicato di dolore umano, sorretti dalla fede. L'elenco di consigli è stato elaborato credo da Mons. Luciano Pascucci, o comunque lui lo ha rigirato a noi giovani sacerdoti ad un incontro di formazione permanente del clero:


ARRIVEDERCI IN CIELO
(Decalogo per quando muore una persona cara)
1. Con la morte della persona amata è come se fosse tolto il terreno sotto i piedi. Ma anche se le lacrime sono inesauribili, anche se non ti senti la terra sotto i piedi, non sprofondare al di sotto delle mani di Dio. Puoi abbandonarti alle tue lacrime, nella certezza che le sue mani ti tratterranno amorevolmente. Non andrai a fondo. Il lutto ti può trasformare, può farti conoscere la profondità della tua anima.
2. Non meravigliarti se nel periodo del lutto affiorano anche sentimenti di rabbia e di collera. Dà spazio alla disperazione. Esprimila! Parlane con le persone che ti sono vicine, offrila a Dio nella preghiera. Porgi a Dio il tuo cuore ferito perché possa essere guarito dalla sua amorevole vicinanza. Non trattenere le lacrime. In questo modo impedisci che il tuo dolore venga elaborato, trasformandosi in una vita nuova che può germogliare in te. Lascia che il dolore fluisca. Esso cesserà, si trasformerà e ti introdurrà in una nuova gioia di vivere. Làsciati andare al ritmo del tuo dolore: non sottoporlo alla pressione di superarlo prima di quanto sia bene per la tua anima. Ma nel dolore confida nelle parole della Scrittura: “Dio asciugherà ogni lacrima dai loro occhi. Non ci sarà più la morte, né lutto, né pianto, né dolore...”.
3. Non preoccuparti se nel periodo del lutto la tua preghiera si trasformerà in lamento. Oggi abbiamo cancellato il lamento dalle nostre preghiere. Possiamo chiedere ragione a Dio: "Perché mi hai fatto questo? Che senso ha? In fondo siamo una buona famiglia.. Perché ci tratti in questo modo?" Abbi il coraggio di lamentarti!

4. Rinuncia anche a incolparti, a rimproverarti e a dilaniarti con sensi di colpa. "Non avrei dovuto trattarlo diversamente? Ho avuto cura di lui? Che cosa ho trascurato nei suoi confronti?" Offri la tua colpa a Dio e confida nel suo perdono totale. Devi avere fiducia che anche la persona defunta ha perdonato tutto. Ora si trova presso Dio e vicino a lui è in pace. Anzi vorrebbe che tu partecipassi della sua pace. 

5. Quando ripensi al tuo caro defunto, non fermarti a ricordare i singoli fatti. Chiediti qual'è il messaggio che avrebbe voluto portarti. Questo è certamente ciò che Dio voleva e vuole dirti per mezzo suo. Quando pensi alla persona cara venuta a mancare, i tuoi pensieri non devono essere rivolti al passato. Chiedi anche alla persona defunta che cosa vorrebbe dirti oggi, prega di indirizzarti verso ciò che è veramente importante per la tua vita. Potrebbe anche invitarti a inserire la morte nel tuo progetto di vita. Pensare alla morte non deve amareggiarti la vita, ma aiutarti a vivere in modo più vigile e consapevole.
6. Un modo per riempire di significati il tuo lutto è quello di pregare per il defunto. Puoi pregare affnchè nell'incontro con Dio egli si abbandoni completamente tra le sue braccia e si lasci avvincere dal suo amore e dalla sua misericordia, perché si affidi a Dio e possa cosi sperimentare la sua gloria. La tua preghiera è l'ultimo atto di amore per il tuo caro defunto, è un intercedere perché la sua morte abbia buon esito, perché non sia tutto finito con il momento ultimo della sua vita terrena. Ma la tua preghiera deve anche essere improntata alla riconoscenza. Devi ringraziare Dio perché ti ha fatto dono di questa persona. Nella preghiera sperimenterai una nuova forma di comunione con il defunto. Il morto si trova ora presso quel Dio al quale tu ti rivolgi. Se nella preghiera tu avverti la vicinanza di Dio, insieme a lui puoi sentire anche la vicinanza del tuo congiunto. Ogni volta che partecipi alla Messa puoi essere certo di prendere parte alla liturgia celeste, all'eterno inno di lode che tutti i cari defunti innalzano incessantemente in cielo.
7. Puoi pregare per il defunto. Ma puoi anche rivolgerti a lui, anche se giovane. Prega la persona defunta che ti accompagni lungo il tuo cammino, che ti protegga dai passi falsi, che ti dica che cosa conta nella tua vita. Essi si trovano presso Dio e, in Dio, sono vicini anche a te. Scopo del lutto è quello di stabilire una nuova forma di relazione con il caro defunto. Nella preghiera avvertiamo il morto come nostra guida interiore. Così ti accorgerai che la relazione con il caro congiunto non è stata troncata, ma soltanto trasferita su un altro livello. Pregalo e, in Dio, egli percorrerà insieme a te tutte le strade.
8. Come Cristo anche le persone care ci preparano l'abitazione presso Dio. Quando una persona cara muore, prende con sé e porta a Dio tutto ciò che ha condiviso con noi: i dialoghi, l'amore, le varie esperienze... Una parte di noi viene portata a Dio, è già presso Dio. Quando moriremo non finiremo in una regione sconosciuta, ma nell'abitazione che Cristo e le persone da noi amate, che ci hanno preceduto nella morte, hanno preparato per noi. Lì troveremo la nostra abitazione definitiva e ci sentiremo per sempre a casa. Ci rivedremo nell'eternità. Rivedremo le persone che abbiamo amato sulla terra. L'amore che hai vissuto non morirà. "Amare significa dire all'altro: tu non morirai!" (Claudel). Anche nell'eternità, presso Dio, tu continuerai ad amare le persone che hai amato sulla terra, ma le amerai in un modo nuovo e attualmente incomprensibile. Sarà un amore senza malintesi e senza gelosia, un amore puro che gioisce per la presenza dell'altro... un amore divino che ti congiunge contemporaneamente a Dio e alla persona amata.
9. Al cospetto della morte di una persona cara sei invitato a trascendere la vita terrena. Il tuo desiderio del cielo ti permetterà di elevarti al di sopra di questo mondo, che non è tutta la realtà. In te c'è qualcosa che va oltre, che è già in cielo. Questa fiducia ti libera dal peso di questa vita e ti dona la libertà divina dell'eternità.
10. La morte porta con sé dolore e sofferenza, come la nascita. Ma, quando la nascita è avvenuta, regna una gioia che nessuno ci può togliere. Anche l'elaborazione del lutto è come la nascita di una nuova vita in te. E' piena di sofferenze e di timori. Spesso è buia come il percorso del parto. Sembra volerci afferrare alla gola. E' una strada stretta e tormentosa. Ma, una volta che l'abbiamo percorsa sino in fondo, il nostro cuore si allarga e vediamo una nuova luce che ci illumina. Io ti auguro di attraversare il tuo dolore pieno di fiducia.

mercoledì 9 ottobre 2013

Roveto ardente a lode di Dio

Ancora rovestando carte nel trasloco, mi capita questo foglio che suppongo provenga possibilmente da una giornata di ritiro presso il Teresianum, ma non ne sono sicuro. L'autore è L. A. Lassus, una riflessione sulla spiritualità della inabitazione della Santissima Trinità nell'anima:


Roveto ardente a lode di Dio
di L. A. Lassus
L'universo intero, la sua potenza, la sua bellezza, la stupefacente prodigalità degli esseri,. il formidabile pullulare di formule e di colori è l'inno grandioso dell'Essere-Festa di Dio, l'esplosione del Verbo e dell'Amore "che muove il sole e le altre stelle", anche se si fanno sentire a distanza di secoli le dolorose dissonanze del peccato, della sofferenza e della morte, anche se le tenebre coprono ancora la superficie della terra. Perché un Bambino è nato nel cuore della notte. Reca in mano il globo della terra e l'universo intero. Con lui, il figlio dell'Amore, l'immagine del Padre invisibile, la notte è finita. "Piacque a Dio far abitare in lui ogni pienezza e per mezzo di lui riconciliare a tutte le cose, rappacificando con il sangue della sua croce le cose che stanno sulla terra e quelle nei cieli" (Col 1, 19-20).
Ogni creatura quindi è già un roveto ardente dalla fiamma gioiosa e prega e canta la gloria della Trinità di cui è un'espressione particolare di amore. "Cristo è risorto e la vita trionfa; Cristo è risorto e non ci sono più morti nei sepolcri. Alleluja, Alleluja!" La terra è trascinata nella danza eterna.
Ma c'è un'altra danza dei Tre nel mondo e del mondo in Dio, tanto più silenziosa e nascosta, ma anche tanto più intima ed essenziale: la divinizzazione dell'uomo, la "dimora" delle Tre Persone in quelli che amano Gesù: "Se qualcuno mi ama — aveva detto — il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui" (Gv 14,23).
Lo stato di grazia degli amici di Dio è questa invasione dell'anima e del corpo, che trascina con la fede e l'amore nella festa trinitaria. La fede del figlio di Dio raggiunge la realtà divina e l'amore è, fin dal primo istante, permuta, scambio, assimilazione tra l'amico e l'Amato. Lo spirito dell'uomo diventa cosi spirito di Dio; la sua volontà, volontà di Dio; la sua gioia, gioia di Dio. Per riprendere un'immagine cara agli spirituali, è un po' come quando si butta un pezzo di legno nel fuoco. Comincia a far fumo, diventa nero, si mette a scoppiettare, poi improvvisamente diventa fuoco con tale intensità, con tale profondità che non si sa più dov'è il legno, dov'è il fuoco, dov'è il fuoco, dov'è il legno. Così succede all'amico di Dio che possiede la Santa Trinità: egli non vive più; ma Dio in lui e lui in Dio, ed è un'anticipazione della festa del Cielo, quando Dio sarà tutto in tutti. In ogni istante egli nasce da Dio, vive la vita di Dio, conosce Dio come Dio conosce se stesso e lo ama dell'amore con cui Dio ama se stesso, lo Spirito santo. E' sposato con il Verbo e quindi con il figlio diletto nel quale il Padre pone tutta la sua gioia e sul quale riposa lo Spirito.
A questo punto cosa c'è ancora di incredibile se compie l'opera stessa della Trinità, riflette il suo splendore e illumina tutto intorno a sé?